da carmillaonline.com
Il 25 novembre è la giornata mondiale contro la violenza sulle donne. La giornata nasce in ricordo delle sorelle domenicane Mirabal, uccise il 25 novembre del 1960 perché impegnate nella lotta di liberazione nella Repubblica Dominicana. La commemorazione di questa data ebbe origine al primo incontro internazionale femminista in America Latina, celebrato in Colombia nel 1980. La Repubblica Dominicana propose questa data in onore di Patria Minerva e Maria Teresa Mirabal, nel ’98 l’assemblea generale delle Nazioni Unite approvò all’unanimità il 25 novembre come “Giornata internazionale contro la violenza sulle donne”.
La Casa delle donne di Bologna organizza la quinta edizione del Festival La violenza illustrata (www.casadonne.it) che dal 5 al 30 di questo mese dedicherà appuntamenti tematici inerenti a questo fenomeno. Finalmente si è radicata l’idea che festeggiare questa data è un appuntamento imprescindibile, e siamo molto felici che a sostenere questo progetto non siano solo le realtà che si occupano di donne, ma anche tante associazioni operanti sul territorio nei campi più disparati.
Abbiamo cercato di coordinare le direttrici teoriche del Festival lungo l’asse di alcune tematiche, una di quelle di quest’anno è Altri femminismi, un filone che indaga la situazione della violenza di genere in paesi come il Pakistan, l’Albania, l’India, l’Iran.
Ma la violenza è affare di casa nostra come di tutte le altre nazioni, la violenza contro le donne è un fatto culturale, un portato del patriarcato, e i dati dimostrano che nulla ha a che vedere con culture tradizionali, fondamentalismi e differenze di classi sociali. La violenza contro le donne è universale, trasversale, multiforme e cambia continuamente modalità, adeguandosi alle nuove tecnologie e alle nuove forme di relazioni della nostra contemporaneità. È così strettamente collegata, complice con la svalorizzazione del femminile, che ci attraversa gli occhi tutti i giorni e non ce ne accorgiamo.
A livello mondiale la violenza contro le donne commessa dal partner, marito, fidanzato o padre è la prima causa di morte e invalidità permanente per le donne fra i 16 e 44 anni, ancora prima del cancro, degli incidenti stradali e della guerra.
La Casa delle donne per non subire violenza a partire dal 2006 raccoglie e analizza tutti i casi di donne uccise riportati dalla stampa e riconducibili alla violenza di genere.
La ricerca svolta per il 2009 dimostra che le donne uccise sono in larghissima maggioranza italiane (il 70%, 83 in numero assoluto su 119), come sono italiani gli autori di queste uccisioni (76%, 86 in cifra assoluta). Questi dati, assolutamente in difetto, perché non danno conto delle donne scomparse, delle clandestine, di tutti i casi non ancora risolti, dimostrano comunque infondata la teoria secondo cui ad agire violenza contro le donne sarebbero i migranti o persone sconosciute.
La ricerca rileva che la donna viene uccisa per mano degli uomini a lei più cari: il marito nel 36% dei casi, l’amante convivente o partner nel 18%, e nel 9% dei casi da ex (mariti, conviventi o amanti), mentre nel 13% dei casi ad ucciderla è un altro parente (padre, fratello, figlio).
Inoltre, tra le cause si ritrova maggiormente la volontà dell’autodeterminazione legata alla sfera sentimentale: quando la donna cerca di interrompere una relazione, si espone al forte rischio di essere uccisa. Il possesso sembra essere il dato preponderante che emerge da queste relazioni di potere.
Le donne non denunciano, specie quando parliamo di violenza domestica. Esistono diversi fattori, economici, culturali, legislativi che inducono le donne al silenzio. In primis la dipendenza economica dal partner o da chi esercita violenza, dalla casa in cui risiede al reddito: negli ultimi anni, per la crisi economica molte donne sono state licenziate, i contratti a termine non rinnovati. Quelle che si sono azzardate a fare un figlio sono state le prime a pagare la flessibilità crescente. Si pensi solo a tutti i contratti precari che non contemplano il pagamento della maternità. E poi vi è un profondissimo problema culturale, che fa della donna un oggetto di controllo e dominio.
La separazione, vissuta come un’umiliazione e un affronto alla propria virilità, ma anche la perdita del lavoro della donna, per esempio dopo la nascita del figlio, possono far esplodere l’aggressività prima repressa. Le scarse tutele sul posto di lavoro, la morale della famiglia, il relegare ancora oggi la donna al lavoro di cura non retribuito e non condiviso con il partner (ma soprattutto non coadiuvato dai servizi sociali, cui il lavoro femminile di fatto supplisce completamente), i media che riducono la donna a corpo sessuato atto a vendere merci di qualunque genere, cui non è permesso invecchiare, parlare, pensare, in una parola, “esistere come soggetto”: tutto ciò contribuisce ad umiliare le donne, che di conseguenza, non denunciano, perché “non credono di avere dei diritti”.
La violenza di genere è un fenomeno invisibile per molti motivi, primo perché è pochissimo denunciata, e dunque anche i dati a nostra disposizione sono parziali e molto sottostimati. Secondo, perché se ne parla poco, i media concedono poco spazio a queste tematiche, e quando se ne parla, se ne parla male, il ché dal punto di vista di chi lavora nella prevenzione del fenomeno, è un ulteriore aggravamento della situazione. I media acutizzano questa piaga riportando le notizie in modo perturbante, misogino, spettacolarizzato, necrofilo, parziale o totalmente voyeuristico. Qui non siamo nel diritto di cronaca ma in una cosciente operazione di violenza verbale, visiva, emozionale, sociale. Si scivola nel reato di “violenza assistita”: dovete pensare ai bambini che guardano il plastico della casa di una ragazzina uccisa in prima serata, una “casa di bambola” dove il reale ha lasciato il posto al surreale.
Sappiamo che la visione della violenza genera emulazione, questa responsabilità dovrebbe essere parte di una riflessione culturale sulla discriminazione di genere in senso lato. Ogni volta che in televisione o sui giornali si parla di “Amore criminale” si ratifica uno stereotipo largamente diffuso anche in strati di ascolto “sensibili” all’argomento: qui non ci troviamo di fronte al romanticismo dell’unione di eros e thanatos, ma a ciò che le studiose chiamano ormai a livello internazionale FEMICIDIO (dall’inglese Femicide) cioè “l’uccisione di una donna in quanto donna”.
Il concetto di FEMMINICIDIO indica invece il complesso di pratiche discriminatorie nei confronti delle donne, dal mobbing allo stupro, dal maltrattamento allo stalking… Ovviamente ognuna di queste discriminazioni è una violenza, in particolare anche l’imposizione di stereotipi costrittivi rivolti alle adolescenti, che incrementano un uso allarmante di ricorso alla chirurgia estetica, con conseguenti problematiche non solo medico-sanitarie ma anche psicologico-sociali.
Quello che è in gioco è la costruzione dell’identità, lavorare per una educazione di genere significa regalare la speranza di un futuro a una generazione di bambine che ci chiede di stare, oggi più che mai, “dalla loro parte”.
A chi è cresciuta senza nessun diritto oltre al dovere sociale di “apparire bella” si devono consegnare le chiavi per la decostruzione di un immaginario capovolto, un percorso difficilissimo, ma non impossibile, che altre prima di loro hanno fatto, partendo da ben peggiori costrizioni: perché “donne non si nasce, si diventa”.
In fondo, oggi che siamo al “ground zero della rivoluzione femminista”, dove tutti i diritti acquisiti sono rimessi in discussione, “grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è dunque eccellente”: le giovani donne non hanno nulla da perdere, proprio come Franca Viola (la prima donna a opporsi alla legge del matrimonio riparatore) cinquant’anni fa.
Le ultime notizie della cronaca politica/mediatica non sono confortanti, ma credo anche che non ci sia un’esplosione di questi fenomeni, questo sottobosco c’è sempre stato: è figlio della mentalità di una gerontocrazia maschile, patriarcale e clericale che governa da secoli il nostro paese (e non solo). In particolare, si pensi all’uso che del gallismo fece il fascismo, l’atteggiamento misogino degli attuali politici al governo riporta in auge questo mito creato ad uso e consumo di un imperialismo fallologocentrico, destinato a dimostrare tutta la sua “impotenza” sul reale. È un apparato spettacolarizzato propinato ad una massa onnivora, costretta a digerire qualunque nefandezza (dalla necrofilia alla pedofilia), se opportunamente reclamizzata.
Gustave Le Bon in Psicologia delle folle sosteneva che la massa è femmina e che come tale il leader deve soggiogarla, possederla: non a caso uno dei libri preferiti di Mussolini, che ne aveva applicato i dettami nella sua immagine pubblica e privata, nella doppia morale con cui faceva convivere famiglia e amante. A lui faceva eco D’Annunzio che riteneva che le parole fossero femmine, mentre le azioni fossero maschi: d’altronde Freud, analizzando il saggio di Le Bon in Psicologia delle masse e analisi dell’Io, ci dice che «il poeta creò il primo ideale dell’Io», un mito fondativo paterno in cui la massa si identifica tramite la figura dell’eroe.
Quanto consciamente oggi Berlusconi utilizzi gli strumenti dei suoi predecessori, non ci è dato saperlo: certo è che, complice la tecnologia mediatica, il suo fascino ipnotico è divenuto “inarrestabile”. Il corpo dato in pasto a questa mitizzazione è un corpo sessuato, un corpo femminile, che, alienato dalla sua soggettività, viene recluso in uno spazio totalmente immaginario: la violenza, dunque, quella sì reale, viene come attutita in questa dimensione irreale, ma proprio per questo amplificata, aggiungendo indifferenza e naturalezza ad atti ormai declinati da una sola perturbante volontà di sapere.
Cosa importa al lettore la giostra sessuale di uno stupro di massa? I dettagli anatomici di una autopsia sul cadavere di una ragazzina? Cosa aggiungono le descrizioni dei rilievi dei liquidi organici o i volti disumanizzati dei congiunti incalzati dal reality della crudeltà?
Nella fragilissima e tragica fase di una elaborazione del lutto queste persone si trovano in uno stato di persecuzione giornalistica tale da configurare contro i media un reato di stalking.
Siamo passati dalla comunicazione della violenza alla violenza della comunicazione.
Ma poiché la violenza di genere è un fatto culturale si può combattere solo con la cultura ad una educazione di genere.