I giorni del g8 sono stati raccontati passo dopo passo qui: http://g8.italy.indymedia.org/
Questa è una testimonianza ulteriore di quei giorni, arrivata dopo l’uscita dal carcere di tutte e tutti i compagni arrestati.
da infoaut sull’operazione rewind.
è una testimonianza dei compagni che sono usciti questo finesettimana dal carcere.
Alla città di Bologna,
siamo Alessandro Boggia, Ernesto Rugolino, Marco Mattei e Francesco
Zuanetti, i quattro giovani studenti dell’università bolognese arrestati
lo scorso 6 luglio a seguito dell’operazione rewind e detenuti per due
settimane presso la casa circondariale "Dozza".
Questa lettera aperta che rivolgiamo a tutta la città di Bologna, vuole
essere una piccola e breve testimonianza diretta circa le drammatiche
condizioni in cui si trovano a vivere i detenuti e le detenute della
Dozza.
Ci siamo infatti trovati in prima persona a vivere una situazione di
sovraffollamento, di cui i soli numeri non riescono neanche minimamente a
rendere ragione; infatti un carcere pensato per non più di 600-700
detenuti, ora che si trova ad ospitarne circa 1200, vede esplodere il
numero di persone per cella: fino a 3 per cellette da una persona e fino a
sei per celle da 2-3 persone.
Oltre la drastica riduzione dello spazio disponibile, il sovraffollamento
è causa di precarie condizioni igieniche, con il rischio di diffusione
rapida di malattie veneree ed infettive anche a causa dell’impossibilità
per molti detenuti di accedere a medicine, spesso troppo costose, e anche
a causa di docce sporche e spesso senza acqua calda anche di inverno, che
scoraggia il detenuto ad usarle; le celle si presentano piccole, con
materassi vecchi e messi a terra per mancanza di letti, con forniture a
singhiozzo ed incerte di detersivi ed igienizzanti per la pulizia della
cella e dei sanitari, lenzuola cambiate solo una volta al mese con razioni
giornaliere di cibo spesso insufficienti a coprire il fabbisogno calorico
minimo per non deperire ed indebolirsi fisicamente ed immunitariamente.
Il sovraffollamento è causa anche dell’inutilizzo del reparto infermeria
per i fini per cui è stato istituito, ovvero come luogo di cura per quei
detenuti delle sezioni giudiziari che necessitavano di un reparto di cura
in caso di malattia: infatti questa ala del carcere si trova ad essere in
tutto e per tutto una zona di detenzione con permanenza fino a 2 mesi,
usata come zona di "parcheggio" dei nuovi giunti o come valvola di sfogo
quando le sezioni giudiziarie sono colme.
A fronte di questa situazione c’è anche una situazioni di carenza di
personale educatore, psicologo, sanitario e soprattutto l’inesistenza di
figure come i mediatori culturali che possano fungere da tramite fra la
componente straniera della popolazione carceraria (la maggioranza) ed il
resto del carcere come gli altri detenuti, il rapporto con i medici per il
proprio stato di salute ecc.. E’ infatti soprattutto, ma non solo, questa
componente migrante che si trova abbandonata a se stessa, con enormi
difficoltà di lingua a comprendere i propri diritti ed a rivolgersi al
personale di guardia, giuridico o medico.
A fronte delle problematiche sociali e di relazioni tra i detenuti in
ambienti così sovraffollati, con una facilità a dir poco disarmante,
abbiamo poi assistito alla prescrizione di psicofarmaci da parte degli
psichiatri dell’istituto ai detenuti dell’istituto, come soluzione
immediata delle difficoltà psicologiche, fuori da ogni percorso di
comprensione di queste, di valutazione del rischio di somministrare
medicinali senza controllarne periodicamente gli effetti e la risposta dei
detenuti, con un rischio forte e immediatamente visibile di dipendenza ed
assuefazione a sostanze psicoattive.
La mancanza di spazi adeguati per le attività ricreative, di biblioteche,
di accesso ai quotidiani, di strutture sportive, ecc… fa il paio con la
precarietà delle zone colloqui con i familiari: stanze piccole con 20 – 30
persone per volta (nessuna privacy con i familiari), sporche, con vecchi
tavoli di plastica da giardino usurati, con sanitari nelle zone di attese
mai puliti; lo stesso vale per la possibilità di effettuare telefonate a
parenti, perché i telefoni si trovano al centro dei corridoi delle
sezioni, accanto al tavolo del personale carcerario, che sono zone di
transito e molto rumorose: si è costantemente disturbati senza possibilità
di intimità nella conversazione.
Questa situazione è poi aggravata dall’atteggiamento delle guardie
penitenziarie, che non svolgendo nessun ruolo collaborativo o di sostegno
alle esigenze del detenuto e dei propri familiari, interpreta a propria
discrezione il regolamento carcerario (cosa peraltro permessa come si
legge dal regolamento stesso) per quanto riguarda il rapporto con i
familiari durante le pratiche per il colloquio o la consegna dall’esterno
di pacchi; è qui che vige l’incertezza più totale per quelle centinaia di
familiari che settimanalmente si presentano alla Dozza perché, se
formalmente ci sono orari di visita, una volta la, sono a discrezione del
personale i turni di ingresso, i tempi di attesa, la documentazione
relativa per potere accedere al colloquio (una volta vanno bene le copie
dei documenti, la volta successiva invece è richiesto l’originale e così
via), il contenuto dei pacchi e ciò che si può far pervenire al detenuto
(per un addetto alla sicurezza un oggetto o una pasto preparato a casa può
entrare, per il suo collega no): con situazioni imbarazzanti e
sconfortanti per i parenti che a volte sono costretti ad andarsene
saltando il colloquio, o a non consegnare il pacco perdendo comunque una
giornata di lavoro.
L’atteggiamento del personale con i familiari dei detenuti, sembra
classificare i parenti degli stessi come potenziali criminali o presunti
colpevoli di fiancheggiare (dare sostegno) a chi è stato condannato.
Se queste sono le condizioni che in così pochi giorni abbiamo potuto
vivere sulla nostra pelle, ci rendiamo conto di chi invece si trova
recluso per periodi maggiori e cosa può significare per la propria salute
psicofisica e per i propri vincoli familiari ed affettivi che, così messi
a dura prova, rischiano di sfibrarsi facendo perdere al detenuto spesso
l’unica rete sociale che può sostenerlo dall’esterno.
E’ a fronte di questa situazione che i detenuti della Dozza, il giugno
scorso, hanno indetto uno sciopero della fame di 7 giorni, con adesioni
altissime, contro il sovraffollamento; per docce pulite e con acqua calda;
per condizioni igieniche e sanitarie non precarie; per lenzuola pulite;
per la mancanza di personale educatore; per un accesso ai farmaci per chi
non può permetterseli; per impedire alla direzione di installare grate con
fitte maglie a nido d’ape a tutte le finestre delle celle, cosa che
ridurrebbe drasticamente la luce nelle stesse con scompensi fisici e
depressivi per i detenuti.
Ma questa lotta non si è fermata con questa iniziativa, proprio perché le
condizioni non sono migliorate e la direzione del carcere ha fatto
orecchie da mercante rispetto alle richieste dei detenuti (al di là delle
dichiarazioni della Direttrice dello scorso 18 giugno, la quale per
esempio aveva assicurato il ripristino del cambio lenzuola una volta ogni
15 giorni, la situazione è tuttora immutata).
Infatti mercoledì 8 luglio, durante la nostra detenzione, è partito un
nuovo sciopero della fame, che si è esteso a praticamente tutte le sezioni
giudiziari, comprese le zone di detenzione più periferiche come
l’infermeria. Una adesione ed una partecipazione emotiva altissima che,
nonostante non sia arrivata comunicazione all’esterno, è stato per tutti i
detenuti un segnale di compattezza su queste tematiche e soprattutto una
prova di solidarietà e affermazione della propria dignità, che
quotidianamente calpestata, è emersa con tutta la sua splendida forza.
Alessandro, Ernesto, Marco, Francesco