Se passa il ddl Carfagna chi di sera esce coi tacchi o con la minigonna si compri una borsa capiente. Riuscire a cambiarsi rapidamente ci farà risparmiare tempo (di reclusione) e denaro (di multa). In base al ddl siamo tutte indiziate.
Scritta bianca sbriluccicante su campo rosso: "Ci riguarda tutte". Semplice e chiaro. Era il testo dello striscione portato in piazza da Sexyshock e Comitato per i diritti civili delle Prostitute alla parade del Pride nazionale di Bologna del 28 giugno 2008. Quindici metri di pizzo rosso, che oltre ad essere stiloso lascia passare la brezzolina. Poi, dopo l’estate, è arrivata la tempesta.
Ce ne siamo rese conto in molte occasioni, e in particolare nelle varie presentazioni fatte in giro per l’Italia di "Ni coupables, Ni victimes": parlare di prostituzione e sex work in Italia è una faccenda veramente spinosa.
Spesso a Betty è sembrato che i modi di leggere, raccontare e immaginare "il mestiere più antico del mondo", ascoltati in tanti dibattiti pubblici, potessero essere considerati una specie di test su tutto quello che piu’ la riguarda e di cui si e’ sempre occupata: la sua vita quotidiana di donna e precaria, la sua sessualità, il modo in cui si veste, l’ora in cui torna a casa di notte. Una specie di cartina di tornasole: stereotipie, moralismi, e tanta, tanta ignoranza. Ignoranza intesa in senso letterale: tutti e tutte quelle che ne parlano sembrano "non saperne mezza di ciò di cui si sta parlando". Come se fossero investiti/e da un senso di legittimità diffusa a dire la propria, per altre/i, sulle loro spalle, senza pensare di interpellarle/i. Presupponendo che questi/e ultimi/e non abbiano una voce.
La prostituzione appare nel discorso mainstream come il regno supremo delle proiezioni, dei tabù e delle fantasie, ora piccanti ora redentive. E quanto emerge è la difficoltà piena di contraddizioni – una vera e propria negazione della realtà – nel riconoscere la complessità e la diversificazione del mare magnum del sex work, che va dal lavoro a tutti gli effetti a tempo pieno, a prestazioni occasionali, dal call center alla casa, all’escort di lusso ecc. E il risultato è il necessario appiattimento di tale complessità sull’immagine unica della "prostituta in strada": trans o meno, tendenzialmente priva di cittadinanza, preferibilmente schiava e minorenne.
La realta’ del lavoro sessuale non e’ certo questa, quella presa di mira dal ddl, e del resto non e’ pretesa del decreto legge normare la prostituzione nel suo complesso. Il problema dichiarato è"pulire le strade". E al contempo, chiarire che cosa e’ sporcizia, impudicizia, indecenza: i nostri corpi esposti. I nostri corpi disponibili. I seni, le gambe, i piedi fasciati da stivali e scarpe che ci slanciano la silhouette.
Si tratta dell’ennesima contrapposizione tra donne "per bene" e donne "per male", un tema che ha attraversato fin dall’inizio il percorso collettivo di Betty, e che si e’ rivelata una questione centrale nell’affrontare innanzitutto le campagne sulla violenza sessuale e di genere. Perché "come", "quando" e "con chi" vogliamo poterlo scegliere, e centrale e’ ribaltare la logica per cui ad essere sotto accusa e’ sempre chi "se l’e’ cercata". L’unica alternativa offerta e’ il ruolo della povera vittima, un essere indifeso e incapace di provvedere a se’, che va tutelato per legge, o per prassi.
Certo il video della conferenza di Bruxelles, in cui centinaia di sex workers e sostenitrici si sono riunite per discutere di strategie di emersione, visibilità e lotta per i propri diritti, mostra figure inconsuete a queste latitudini: donne (e non solo) che lavorano nel mercato del sesso per scelta. Che hanno una faccia, un nome, una storia, aspirazioni, analisi politiche puntuali. Persone provenienti da tutto il mondo che si confrontano e dibattono, che accumulano saperi, esperienze, rivendicazioni specifiche, capaci di organizzarsi per far sentire la propria voce. Che mostrano che "il problema" non sono loro, ne’ il lavoro che fanno, ma le leggi e le prassi che le condannano, le rendono illegali, le stigmatizzano. Sono persone normali.
A questo l’Italia non è abituata: l’Italietta quotidiana della doppia morale, che manda in televisione solo donne di spalle e vittime "della tratta". Salvo poi omettere che senza possibilità legali per migrare, il giro "della tratta" e’ obbligatorio, e che a ricorrere a quei canali di migrazione sono i lavoratori e le lavoratrici sia dell’industria edilizia sia del lavoro domestico sia dell’industria del sesso.
Questi e altri temi sono al centro del brainstorming collettivo di Sexyshock impegnato, in questi giorni, a costruire una campagna di comunicazione contro il ddl. Ore di discussione in cui, ci diciamo, le questioni che devono emergere sono: la liberta’ di scelta sulla gestione del proprio corpo, la libertà di scelta sulla propria vita sessuale, l’inaccettabilità di leggi che pretendono di normare (o, meglio, disciplinare) la vita delle persone senza interpellarle (quel "nessuna legge su di noi senza di noi" agitato dalle sex workers a livello europeo), e il bando alle doppie morali.
Si’, ma come rendere graficamente tutto cio’? Come rompere il concatenamento di luoghi comuni sulla definizione di "sicurezza" imperante, come spiazzare il mare retorico della doppia morale che contrappone donne per bene e donne per male e che nasconde il "male" dentro le "sicurissime" (sic) mura domestiche?
E poi, noi Betty che facciamo il brainstorming, non siamo sex workers (per il fatto che alcune di noi vendono sex toys, tecnicamente in America ci considererebbero tali, ma questa è un’altra storia) e non vogliamo certo parlare "per altre". E allora ripartiamo da capo, da noi.
E capiamo che sì, quello che vogliamo è parlare alle donne, perché queste sono il target della legge: tutte noi. Per il Pride abbiamo prodotto un bollino, "anche io sono una puttana", riprendendo una spilletta prodotta da un collettivo di donne catalane. Ci piaceva questo slogan perché dava visibilità alla consapevolezza delle lavoratrici del sesso, al loro orgoglio di essere tali e al loro deciso rifiuto della "vergogna" comunemente associata al mestiere. Perche’ alludeva alla necessità di non nascondersi, di non fare il gioco della doppia morale. Ma, al contempo, quello che ci affascinava, era il fatto di poter portare addosso quell’"epiteto" che ancora oggi – tutte le donne sanno – corrisponde ad un’offesa. "Puttana", ben lungi da designare una professione, e’ innanzitutto qualcuna che "la da’ via". Il sottotesto, ci fosse bisogno di spiegarlo, e’ che la cosa peggiore che una donna puo’ fare, e’ avere una vita sessuale di cui disporre liberamente.
E allora il cerchio si chiude, siamo da capo, e ripartiamo da qui: se la puttana e’ un lavoro, chi lo fa deve poter emergere come tale. Se puttane siamo tutte (perche’ tutte vogliamo disporre liberamente della nostra vita sessuale) bene, allora: eccoci!
Facile, ma come tradurlo in immagini e parole in modo non ideologico, per permeare la coltre di pregiudizi e stigmatizzazione verso chi scambia sesso per denaro? Come creare un meccanismo di identificazione potenziale da parte delle donne? Ci vuole un’immagine ambigua che, proprio per questo, sia in grado di svelare l’ambiguità e l’arbitrarietà del ddl. Occorre rendere esplicita l’arbitrarietà di parametri che sanzionano le donne mentre battono in strada in base a come sono vestite, e non perché la loro azione costituisce un fatto illegale. Ci immaginiamo una tabella tecnica per vigili urbani e forze dell’ordine, per riconoscere la donna da multare: lunghezza della minigonna, altezza del tacco, profondita’ della scollatura. Ci immaginiamo blitz con metro alla mano fuori dai grandi teatri e dalle discoteche.
Nel momento in cui per legge il modo di riconoscere una prostituta per sanzionarla è codificare il suo look, beh, allora rendiamo esplicito questo criterio. Costruiamo delle "puttane modulari", sezioniamo al millimetro i nostri corpi, spezzettiamoli come fa la legge, smontiamoli come un puzzle, come un rebus da decifrare. Il nostro corpo é il luogo del delitto, i nostri seni e le nostre gambe esposte sono gli indizi: o tutte, o nessuna!